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Il pendente

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Un racconto di Elena Soprano

«Allora vuole qualcosa di speciale».
«Sì, che inghiotta il nero».
«Che inghiotta il nero», ripeté mentalmente l'orafo. Sembrava una frase da ridere. E normalmente l'avrebbe fatto, rifilando la cliente al commesso. Aveva la repulsione istintiva per le donne da spesa di mercato, con la tinta pesante, di evidente fattura casalinga. E del resto il laboratorio era in centro, ma senza vetrina. Si trovava al pianterreno di un palazzo. Un posto conosciuto da una clientela selezionata grazie a un passaparola riser-vato e verticale: non espanso a macchia d'olio, ma allungato in profondità secondo lo stesso rapporto di rela-zione, o di parentela, dei vecchi clienti coi nuovi. L'uomo depose sul banco il vassoio di acquemarine. Irma si curvò subito sull'ultimo scomparto a destra.
«Metà Ottocento, poggia su un cuscinetto di diamanti. Sicuramente era un anello».
«L'anello mi è scomodo», replicò Irma.
«Come a tutte le colf», pensò l'uomo covando sarcasmo.
«Ci farei un pendaglio…», riprese portandosi una mano al petto.
«Pen-daglio?», scandì l'orafo. «Un pendente, vorrebbe dire…».
«Con una bella catena, ma non grossa, che poi stona», precisò la donna ripensando al finissimo gioiello, fatto con una pietra simile, che la bionda di Milano si rigirava tra le dita dicendo:
«Il mio "mare per sempre"». Irma ci abitava di fronte al mare, ma non lo aveva mai pensato come una pietra. Perché il mare cambia. È fatto d'acqua. Si muove. Si muove senza spostarsi. Il mare muta ininterrottamente senza cambiare apparentemente mai: a differenza di tutto il resto. Con una folgorazione Irma aveva percepito il senso di quel "per sempre". E il pensiero era stato come un sussulto sismico, profondissimo anche se imper-cettibile in superficie, nella sua vita di lunghe giornate allo stabilimento termale spalmando fanghiglia nera, bol-lente, odorosa di alghe e uova marce, su corpi deformati e doloranti, su cascami di carni femminili. Non si era sposata. Lui, ragioniere, aveva cambiato idea. Lei non aveva capito bene il perché. Ma presto aveva smesso di chiederselo. Aveva continuato a massaggiare corpi, sintonizzandosi su storie e dolori altrui, non avverten-done più di propri, sciacquando fango senza liberarsene mai del tutto. Lo aveva sotto le unghie, nelle screpola-ture dei talloni. Lo respirava anche quando non era allo stabilimento. Considerata instancabile, era ricercatis-sima dalle clienti per le quali si riapriva, di stagione in stagione, come uno scrigno per custodire rinnovati se-greti. Trentacinque anni di fedele servizio al fango.
«Dove l'ha preso?», aveva domandato alla cliente milanese. E ora era qui.
Il cinismo dell'orafo aveva lasciato spazio alla perplessità. E, senza che potesse impedirlo, questa varcò il con-fine della curiosità.
«Le costerà più della liquidazione…», mormorò.
«Bisogna pur lavorare per qualcosa», lo rassicurò Irma. Fissò la pietra, poi, con uno scatto rapace, l'afferrò e se la ficcò in bocca. Fu il senso di freddo a svegliarla. Per un attimo riuscì a percepirsi priva di peso, un'ombra chiara non ancora del tutto persa nella dissolvenza del giorno.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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